Un giornalista annoiato cammina solitario fra le macerie viventi di una citta’ che continua a fondare la propria bellezza sulle rovine del passato. E’ la bellezza eterna e inerte di Roma, palcoscenico rumoroso e afono su cui recitano personaggi incapaci di andare oltre la parodia di loro stessi.
E’ il tema di fondo de “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino, pellicola apprezzabile piu’ per questioni tecnico-stilistiche che narrative. Spostando la scena di pochi chilometri rispetto alla dolce vita del passato, Sorrentino prova a mostrarne i rigurgiti attraverso la vita stanca della ricca e sbadigliante borghesia che, suo malgrado, resta protagonista. La macchina da presa indugia sui volti stanchi dei non-protagonisti raccontando una non-storia il cui filo conduttore e’ la perenne ricerca di una spiegazione all’abbattimento cerebrale di una societa’, “la mejo”, troppo vigliacca per distruggersi, pur sapendo di essere responsabile del suo stesso imbarbarimento ma rifiutando l’unico gran finale possibile, un suicidio di massa purificatorio. “La Grande Bellezza” estende il problema senza cercarne la soluzione: una scelta furbetta che se lo mette al riparo dal dover dare un giudizio sulla “grandeur” di cui peraltro fa parte ma lo espone alla noia tipica di quei film che vorrebbero dire tutto ma alla fine non dicono niente. All’ombra – lunatica – del Colosseo non c’e’ infatti niente di nuovo e Sorrentino perde una grande occasione per descrivere “‘a Roma decadente der 2mila”: decadente in ogni senso comune, sensuale, spirituale, olfattivo.
Una Roma e una Dolce Vita gia’ raccontata, non senza una certa pesantezza intellettuale, da Maurizio Liverani alla fine degli anni ’60 con “Sai cosa faceva Stalin alle donne”, pellicola che gia’ allora raccontava con un’ironia tanto garbata quanto feroce, l’inarrestabile decadenza della Via Veneto di Fellini e Flaiano, Secchiaroli e Geppetti. Liverani, critico cinematografico di “Paese Sera”, pago’ quell’irriverenza allo star-system (che comprendeva giornalisti, preti, politici, cialtroni, prostitute e prostituti) con l’oblio, l’ostracismo feroce della sinistra del monopolio culturale che invece avrebbe dovuto difenderlo.
Furbescamente senza capo ne’ coda, “La Grande Bellezza” alza la mira su obbiettivi gia’ ampiamente criticati, ormai metabolizzati: la comunista col senso civico che non fa niente tutto il giorno e ha fatto carriera grazie al marito capo del Partito, il Cardinale cialtrone, la suora che si fa il ritocchino, il giornalista che non fa un cazzo e si annoia pure a scopare, ricchi falliti e giovani gia’ vecchi. Il tutto innaffiato da nani e ballerine, allo stesso tempo vittime e carnefici di se stessi su un palcoscenico sempre piu’ largo ma la cui scenografia rende piu’ rassicurante.
Un’occasione perduta? Un vanitoso esercizio di stile? L’analisi critica alla “Grande Bellezza” di Roma e dello “strapaese” romano poteva essere un’idea vincente al cinema considerando l’attualita’ – brutta brutta – di una citta’ che continua a campare di rendita grazie al passato ma in cui si vive sempre peggio, anche nelle zone pregiate, anche “se c’hai i sordi”. Poteva essere l’occasione per tornare a quel cinema critico nascosto e ghettizzato tra i problemi delle periferie o dei disadattati. Sorrentino se la prende con i soliti noti, le solite maschere, le solite situazioni. Con stile, per carita’. Ma il suo film appare un’occasione perduta: prendendosela sempre con i soliti bersagli (le scoreggione rifatte, i ricottari abbronzati, la comunista coi soldi, il cardinale cialtrone, i figli disadattati e vittime dei genitori, i falliti, le suore vanitose) si alimenta un cinema che fa finta di sporcarsi le mani, che indaga e disprezza quella parte della societa’ gia’ ampiamente condannata dalla realta’ lasciando serenamente stare tanto altro: uno, fra i tanti, e’ il cinema stesso. Dalla corte dei miracoli manca proprio quel mondo del cinema incapace di raccontare, di mettersi in discussione, rovina di se stesso ma troppo vigliacco per farsi da parte. Un mondo che partecipa e ha partecipato a tante di quelle cene e dopocena di cui “La Grande Bellezza” rende un po’ troppo approssimativamente l’idea. Poche le interpretazioni di rilievo, nel senso che sono pochi quelli che recitano, come Servillo e Verdone; ottima tuttavia la chiave descrittiva dei personaggi, messa a fuoco attraverso primi piani impietosi in cui i volti-millefoglie malcelano, tra uno strato di talco mentolato e uno di cera, le pieghe mature e sebose delle espressioni e degli organi sensoriali ridotti a orifizi.